Cinema spettacolare o di intrattenimento intelligente, molto meglio se drammatico, sexy e zeppo di attori amati o top star. Il catalogo di Venezia 2007 è questo. In gara ieri due di questi prototipi, non blockbuster, ma dotati di notevole peso specifico sul mercato global.Il melò cinese, spionistico, «patriottico» e quasi noir di Ang Lee, Lust, Caution, che si potrebbe tradurre confucianamente con «Attenzione alla voluttà». Epoca anni '40, Tony Leung è il vero oggetto del desiderio, con ricognizioni integrali del suo corpo, davanti e di dietro, set Shanghai, che è la diva metropolitana del momento ma interessa molto meno al regista. E poi il remake di Sleuth (Gli insospettabili) di Kenneth Branagh, con Michael Caine e Jude Law (che ha avuto l'idea). Il primo, un porno-melo-politico tratto dal romanzo di Eileen Chang, esordio degli studi di Shanghai in coproduzioni internazionali così ambiziose nel budget, rischia di sbriciolare delicati apparati simbolici, giocando su (e a volte confondendo) tre effetti-suspense differenti. Il primo è storico-politico: riusciranno i nostri simpatici eroi, studenti-patrioti, terroristi dilettanti, anzi addirittura attori dilettanti passati alla lotta armata, ad assassinare Ye Lee, un sadico uomo politico traditore della Cina, che si è venduto ai giapponesi invasori? Il secondo è erotico. Tang Wei, giovane attrice prescelta per intrappolare l'obiettivo e render più facile l'agguato, diventa l'amante di Ye Lee. Ma la scelta, apparentemente avventurista, perché lei è del tutto inesperta di sesso, e l'addestramento in cellula sarà ancora più controproducente, sarà invece vincente. Lui si perde dietro a una donna così pudica e diversa dalle solite spie astute alla Marlene Dietrich (di cui ascoltiamo l'inequivocabile «Do you something to me», di Cole Porter, proprio all'inizio), e che ha dovuto, annoiato, smascherare, torturare e uccidere. E lei sarà ancora più credibile e eroticamente appetitosa perché si innamora davvero di quella «bestia» assetata di sangue che, usando il manuale del piccolo sadico sia con i prigionieri che a letto (dove le frustrate, i pugni e i riti bondage sono però molto più elementari), la manda in estasi e le fa toccare con mano livelli orgiastici mai neppure lontanamente sospettati (anche perché il presidente Mao, che sarà il vibratore di un intero continente, è ancora di là da venire). Il terzo livello di suspence, emozionale, è quello che Ang Lee sa usare meglio: catturerà - sospiro dopo sospiro, domino dopo domino, appuntamento dopo appuntamento, «odio dopo odio» (il carburante della passione erotica) - totalmente lo spettatore (ormai disinteressato alla posta in gioco politica, o a chi sia il misterioso Partito di cui si parla, e che sembra antipatico e dogmatico rispetto ai loro «plenum» tra i cuscini), costi quel che costi. Perfino rubando ai rivali Hou Hsiao Hsien e Wong Kar Wai lo splendore cromatico di un gioco da tavolo o il dettaglio fashion). La platea è rapita dal destino dei due amanti, come non capitava dal Portiere di notte. Gli attori, collaborazionisti, stanno pensando a un altro tipo di rivoluzione che ha altri tempi, altri riti, altri monumenti, che non quelli della banale Storia. Stanno facendo, con professionalità, sovrastruttura.
Il Manifesto, 31 agosto 2007
Halloween
John Carpenter’s original 1978 “Halloween” was a slumber-party spook tale about a mask-clad bogeyman hacking his way through a sleepy Illinois suburb. Rob Zombie’s remake wants to be all that and a case study as well, devoting its first act to the childhood of the future serial killer Michael Myers, a chubby, sweet-faced, socially awkward boy whose mental illness is transformed into murderous rage by school bullies and a home life of Dickensian squalor. Unfortunately, the spook tale and the case study are incompatible storytelling modes. Mr. Zombie’s movie, which he wrote and directed, wants us to care about Myers — who busts out of a mental institution 17 years after murdering most of his family and goes home to reconnect with the baby sister he spared — even while it depicts him as a mute, literally faceless grim reaper. The two impulses cancel each other out. That’s too bad, because the case study part of the film re-establishes Mr. Zombie’s status as modern American horror’s most eccentric and surprising filmmaker.Like Mr. Zombie’s first two features, “House of 1,000 Corpses” and “The Devil’s Rejects,” this “Halloween” is unusually at ease among white, working-class characters who drawl, curse and like their fun loud. Between the movie’s classic rock soundtrack, the screenplay’s lively characterizations and Phil Parmet’s chaotic camerawork, Mr. Zombie often seems less an heir to Mr. Carpenter and other 1970s horror filmmakers than a sociologist who happens to make horror movies: the John Cassavetes of splatter. Mr. Zombie lavishes attention on the killer’s sad origins to the point where his film suggests a boy’s answer to Brian De Palma’s “Carrie.” Young Michael (Daeg Faerch) is cursed with a frazzled mother, Deborah (Sheri Moon Zombie, the director’s wife), who has a newborn daughter and a job as an exotic dancer; a sexually active older sister (Hanna Hall); and a loutish stepfather (overacted by William Forsythe) who taunts the boy. Michael wears masks all the time and acts out his buried anger by killing animals, warning signs that his family ignores at their peril.The boy’s equivalent of Carrie’s prom detonation is his Halloween night rampage. It begins with a touching montage that cuts between Michael brooding alone in his neighborhood and his mother sliding around a strip-club pole to the tune of “Love Hurts,” and climaxes with a killing spree that alludes to suppressed Oedipal and incestuous desires. Alas, once Michael is locked away in a mental institution under the care of Dr. Samuel Loomis (Malcolm McDowell), the movie starts to spin its wheels. When Mr. Zombie reintroduces Michael as a long-haired giant (Tyler Mane) pining for a reunion with his now-teenage sister, a spunky baby sitter named Laurie (Scout Taylor-Compton), the film’s energy and originality dissipate. Michael’s escape from the asylum and his knife-wielding, door-smashing progress through his old neighborhood are competently handled but tedious. Mr. Parmet’s lighting and compositions link the adult Michael to Boris Karloff’s Frankenstein’s monster, but the film’s obligation to serve up the expected body count prevents Mr. Zombie from laying the groundwork for the explosion of tragic feeling that the movie’s finale deserves.
The New York Times, 1 Settembre 2007
The New York Times, 1 Settembre 2007
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